di Luigi
Scardigli
Un elfo pentito. Un visionario impasticcato. Un professore
di matematica senza cattedra. Un poeta ripudiato. Un pianista incommensurabile.
Giovanni Allevi, maestro minimalista e dispensatore di ovvie verità che troppo
spesso dimentichiamo per strada, è tutto questo, ma molto altro ancora.
Preferisco non aggiungere altre impressioni per un senso di
profondo rispetto che nutro nei confronti della sua musicalità, un viaggio
immaginario e immaginifico verso il vuoto con tanto di segnaletica stradale.
Ieri sera, al teatro Manzoni, dove ha fatto tappa il suo
tour Alien, il pubblico non si è
limitato a gradire e sottolineare la performer di un vero e proprio talento con
applausi e grida fragorose ad ogni preludio e fine, ma ha provato ad interagire,
soprattutto perché lui, il giovane maestro ansioso, desidera così.
La vis di
Giovanni Allevi mi ha ricordato, ieri sera, durante il suo assolo, quella di
Pat Metheny, altro incantatore di serpenti che si muove lungo una bisettrice
musicale decisamente non contemplata da alcuna mappa sonora. Non so perché ma
ho sempre avuto l’impressione che i manoscritti del pianista marchigiano
somiglino, per trama, contenuti e visioni, a Last train home, l’opus maximum, a mio avviso, del chitarrista
statunitense.
Perché Giovanni Allevi ha la meravigliosa e comunicativa
umiltà di raccontare le sue sensazioni, che sono quelle che lo hanno ispirato a
comporre e ne hanno decretato il senso. Tutti i suoi componimenti hanno un
titolo che non potrebbe essere che quello da lui assegnatogli, come se la
musica, sublissime, come direbbero a
Parigi, che lui scrive fosse un compito sovrannaturale che una divinità lontana
e disinteressata gli chiedesse di comporre affinché i normodotati ne possano
gioire.
Un teatro Manzoni gremito di tifosi che hanno stentato, non
poco a trattenere il fiato e le mani prima di liberarsi, al termine di ogni
singola esibizione, in incitamenti e applausi. Una dozzina di brani
indescrivibili, inzuppati fin nelle ossa dalla sua passione, dalla sua eleganza,
dalla sua discrezione, che si trasforma in lazzo, settecentesco e che diviene
giullare, dotto e signorile, ma giullare.
Per non parlare dell’eleganza della sua motilità, la
profondità delle sue note, l’interminabile sospensione delle pause, la tragica tenerezza
dei suoi testi, parole incredibili che arrivano diritte al cuore.
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[Giovedì 19 aprile 2012 - © Quarrata/news 2012]
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