PISTOIA. Ecco l’omelia che il Vescovo Mansueto Bianchi ha
tenuto stamattina, 25 luglio 2012, in cattedrale.
LA PIAZZA E LA PORTA
È una festa davvero singolare, quella di S. Jacopo per
la nostra Chiesa e per la nostra città. Essa ci raggiunge dalla profondità dei
secoli, come recando il sentire, l’anima di un popolo e ci consegna, con i suoi
simboli e con i suoi riti, civili e religiosi, uno schema di rapporto tra
Chiesa e città. Tale rapporto appare assai più ricco e complesso, soprattutto
più vitale, di quello che noi, con un semplificato schematismo intellettuale,
molto improntato alla tutela ed alla difesa dall’altro, chiamiamo “reciproca
autonomia”. In una festa come quella di oggi, la Chiesa e la città appaiono
come due espressioni vitalmente connesse di quell’unico evento che ha nome
popolo, che ha nome vita, e di quel suo camminare nel tempo che noi chiamiamo
storia e civiltà.
Certo, la connessione vitale di cui parlavo, non è
confusione di ruoli e di fini, non è intercambiabilità di ordinamenti e di
funzioni.
E tuttavia questo giorno di S. Jacopo ed i segni che
noi poniamo ci rimbalzano una domanda e ci provocano ad una risposta: ma che
rapporto c’è tra la Chiesa e la città? Cos’hanno reciprocamente da dirsi queste
due realtà dinanzi al comune soggetto cui esse sono poste: il popolo, la
“gente”, dinanzi alla storia condivisa da cui provengono ed al futuro verso il
quale vanno?
In questa sosta nella nostra Cattedrale, mentre
celebriamo la Messa solenne di S. Jacopo lasciate che, sul mio versante, faccia
risuonare così quella domanda: che rapporto c’è tra la Messa e la città? Cosa l’Eucaristia
dice alla città? Come il Corpo del Signore tocca il corpo sociale di una città?
Signor Sindaco, rappresentanti delle istituzioni
cittadine, cittadini di Pistoia, sorelle e fratelli nella Fede in Gesù Cristo,
voi meglio di me lo sapete: la città non è solo agglomerato di strutture,
intrecciarsi di iniziative, aggregazione di persone tenute insieme da un codice
di leggi che cerca, per così dire, di smaltire il traffico, impedendo
collisioni o la reciproca paralisi. La città è il prolungamento della persona,
le relazioni tra persone, la possibilità stessa di essere e diventare
storicamente persona, il luogo della crescita nella dignità, il cantiere della
civiltà e della umanizzazione. Pistoia dunque, con il suo territorio, porta in
sé questo dono e questa responsabilità di essere un progetto di umanità, di
essere una “architettura etica” (cfr. E. Bianchi).
Ogni città, ogni umana convivenza, ha i suoi luoghi
simbolici, che sono, per così dire, i volti dell’anima. Vorrei evidenziarne
due: la piazza e la porta.
La porta è come il volto con cui una città si
presenta, è l’anticipazione della casa, della comunità umana che la inabita. La
porta dice l’accoglienza, l’invito, la disponibilità; ma dice anche l’affacciarsi
e l’inoltrarsi verso l’avventura dell’incontro, il mettersi in gioco su scenari
non scontati, non garantiti.
Il Corpo del Signore, l’Eucaristia che stiamo
celebrando, è la porta aperta nel cuore di Dio da cui la Trinità fa esodo verso
la lontananza della creatura e l’uomo accede all’incontro che lo sana e lo
salva. Essa, l’Eucarestia, chiede alle porte della nostra città, chiede alla
porta della mente e del cuore, di non chiudersi per paura o per comodità.
Chiede di non cercare o pensare alla propria salvezza, individuale o di
categoria, in una lunga stagione di crisi come questa: è tempo di uscire
insieme verso la “terra del noi”.
È tempo di stringerci, di compattarci come corpo
sociale, tra categorie e persone diverse, per convergere verso quegli obiettivi
che costano fatica a tutti ma sono il bene di tutti.
È tempo di accrescere il legame della vicinanza e
della fiducia tra le istituzioni ed i cittadini.
È tempo di riconoscere e promuovere il valore sociale
dell’impresa che non è nemico del valore economico.
È tempo che molti Istituti Bancari e di Credito,
soprattutto se sono di gravitazione cattolica o sono nati dall’impegno sociale
dei Cattolici, escano con coraggio da atteggiamenti autoprotezionistici, verso
un atto di risposta e di fiducia alle aziende ed alle famiglie che hanno
bisogno di finanziamenti o di rinegoziare quelli ottenuti per evitare la
chiusura, la perdita di lavoro, lo sgretolamento familiare. È tempo che anche i
cittadini ricordino quello che da sempre la dottrina sociale della Chiesa dice
sui beni privati, patrimoniali o finanziari, e privilegino scelte produttive di
investimento, di crescita del lavoro, rispetto alle mere rendite di posizione o
di interesse. È tempo che mettiamo mano alla riforma dei sistemi macro
economici che, a partire dalle loro esigenze, piegano la vita dei popoli a
scelte che troppo spesso e troppo gravemente si scaricano sullo stato sociale,
sulle fasce più deboli, sul futuro dei giovani, sulla elementare e fondamentale
sicurezza della Famiglia.
È tempo di ricostruire il primato della buona politica
sui mercati. È tempo che impariamo tutti uno stile di vita più austero, più
sobrio, meno asservito agli “status symbol” piccoli o grandi; che impariamo la
cultura dei doveri personali e sociali, non solo quella dei diritti, il senso
dello Stato, il valore dei beni e dei servizi collettivi, il rispetto della
città, l’uso misurato e responsabile delle risorse naturali. E, parlando di
porta, vorrei aggiungere: è l’ora che la politica esca dalle sue cittadelle chiuse,
autoreferenziali e, qualche volta perfino corrotte. È l’ora che essa torni in
mezzo alla gente, senza però diventare demagogica o piazzaiola, è l’ora che si
faccia carico dei problemi reali e gravi delle persone, che dia, per prima,
esempio di quei sacrifici e di quelle rinunce che chiede ai cittadini; è l’ora
che riscatti così una dignità che sta perdendo, una stima che sta dissipando.
Vorrei sbagliarmi, ma temo di dover dire, per la
drammaticità delle circostanze, che sta passando l’ultimo treno!
Ma tutto questo esige da noi Chiesa, una severità di
giudizio verso noi stessi, i nostri modelli di comportamento talora lontani dal
Vangelo, i nostri peccati, pubblici e privati. Essi allontanano da Gesù Cristo,
centro e motivo del nostro vivere, e ci rendono perciò sempre più simili al
comportamento dei due fratelli, Giacomo e Giovanni, di cui il Vangelo poco fa
ci parlava e del quale Gesù ha detto “tra di voi non dovrà essere così!”.
C’è, infine, l’altro simbolo della città che è la
piazza, l’agorà.
Essa rappresenta il confronto in atto, la fatica di
comporsi con la diversità, la scuola della pluralità, l’esito dell’incontro.
C’è però una volgarizzazione della piazza, dalla quale
dobbiamo guardarci.
Dobbiamo continuamente prendere le distanze da una
piazza conflittuale a favore di una piazza dialogale. La piazza conflittuale
genera una città rotta, rabbiosa, dove si accostano vincitori e vinti, dove è
smarrito il senso del bene comune.
Dobbiamo prendere le distanze da una piazza
parcellizzata a favore della piazza partecipata. Nella piazza parcellizzata
ciascuno occupa e difende lo spazio che si è conquistato, vivendo la presenza
dell’altro come competitore e come insidia, nel continuo tentativo di
difendersi o di espandersi.
Ma dobbiamo prendere la distanza anche dalla piazza
insignificante, solo funzionale, dalla piazza non vissuta, occasionalmente
transitata ed usata, ma senza che essa rappresenti e lanci la sfida del modello
di vita, del progetto di città. La piazza non vissuta è il grande rischio del
tempo nostro, spesso ripiegato sugli individualismi: di persone, di categorie,
di progetti di vita. È un tempo povero di passioni e ricco di capricci e
passioncelle, povero di orizzonti e di progetti dal lungo e ampio respiro,
infossato invece nei percorsi individuali e brevi, nelle speranze dal respiro
corto e concitato. La piazza non vissuta dice la disaffezione alla dimensione
collettiva e popolare, progettuale del nostro vivere, la ricaduta nelle piccole
geometrie dei particolarismi personali o di fascia, degli utilitarismi cui è
tanto più facile affezionarsi, quanto più tramonta all’orizzonte la passione e
l’impegno per la città, per il bene di tutti.
Ecco, nella luce del Vangelo di oggi, in questo
incontro tra Eucaristia e città, nella festa di S. Jacopo, emergono questi due
simboli: la porta e la piazza, che sono anche una tensione ed una sfida: quella
tra città negata e città sperata, quella tra la Pistoia che non dobbiamo essere
e la Pistoia che vogliamo diventare.
La festa di S. Jacopo ce ne rende avvertiti, ci
consegna la sfida, ci indica la strada che non fallisce la meta.
+ Mansueto Bianchi
Vescovo di Pistoia
Cliccare sull’immagine per
ingrandirla.
[Mercoledì 25 luglio 2012 - ©
Quarrata/news 2012]
>>È tempo che anche i cittadini ricordino quello che da sempre la dottrina sociale della Chiesa dice sui beni privati, patrimoniali o finanziari, e privilegino scelte produttive di investimento, di crescita del lavoro, rispetto alle mere rendite di posizione o di interesse. È tempo che mettiamo mano alla riforma dei sistemi macro economici che, a partire dalle loro esigenze, piegano la vita dei popoli a scelte che troppo spesso e troppo gravemente si scaricano sullo stato sociale, sulle fasce più deboli, sul futuro dei giovani, sulla elementare e fondamentale sicurezza della Famiglia.
RispondiEliminaE' tempo che anche la chiesa pistoiese però si attenga alla dottrina sociale della chiesa : rinunci al parcheggio interrato, che non è un investimento produttivo ma una rendita di posizione!
>>...il valore dei beni e dei servizi collettivi, il rispetto della città, l’uso misurato e responsabile delle risorse naturali.
L'antico orto monastico di San Bartolomeo è un bene collettivo e potenziale servizio della città, perché lo volete precludere ai pistoiesi vendendolo alla Napoletana S.p.A. ?