PISTOIA. Non so bene perché, ma in estate-autunno
mi sono sempre trovato a dire di sì ad ogni richiesta di Antonio. Ci sono stati
due o tre momenti in cui non ho saputo né voluto dire di no.
Uno fu quando mi invitò ad andare a
trovarlo al mare, dove era con la famiglia. E fu una giornata di grazia, con
una bella luce, le Apuane alle spalle, i viali quasi deserti – era settembre –,
i pini con gli aghi secchi per terra e l’odore di resina. Un’aria tiepida e
calma come quella di una primavera fuori del tempo.
Antonio venne a prendermi all’uscita di
Versilia, perché mi disse che altrimenti mi sarei perso.
Sua moglie la conoscevo già. I figli
solo perché lui, nelle nostre chiacchierate, come accade, me ne parlava. I
genitori, prima o poi, parlano sempre dei figli.
C’era anche la madre della moglie. Ma
c’erano, anche, due personaggi a se stanti: i cani della figlia Agnese, due
affari piccolissimi, uno dei quali, Zigulì, Antonio lo chiamava buffamente il conte
Zigu, e l’altra – con nome da maschio di stirpe faraonica: Seti – abbaiava
come un’ossessa credendo di farmi paura.
Dopo pranzo ce ne andammo a giro e
camminammo fino a sera. Antonio, a un tratto, comprò anche i mezzi-sigari che
di solito fumava, ma… Immaginatevi come restò quando non si trovò il portafoglio
in tasca. Era indispettito e confuso, tanto che mi fece scappare da ridere.
Glieli pagai io, ma lui era sempre più indispettito con se stesso. Io mi
divertivo, per questo suo imbarazzo. Te li rendo –
ripeteva – te li rendo.
Quando venni via dal mare, se ne era
dimenticato. Se ne ricordò quando rientrò in città e me li restituì, a forza.
V’immaginate il debito vergognoso per un pacchetto di sigari?
Al mare, parlando e discutendo, eravamo
finiti a toccare il tema di Kant. Mi rifece anche tutto il discorso
dell’imperativo categorico, ma devo confessare la mia difficoltà a comprendere
fino in fondo certi argomenti.
Il 20 ottobre cadeva di sabato. Eravamo
in giro per Pistoia per un caffè. Mi chiese se il giorno dopo, domenica, lo
accompagnavo al mercato a Quarrata. C’erano anche i libri – mi disse.
Il giorno successivo girammo sul
mercato, mi portò al suo banco prediletto, si mise a discorrere con il venditore
in grande confidenza. Acquistò, anche. Qualcosa che riguardava – mi pare –
Pistoia. Ma non ricordo bene cosa.
Dopo il caffè, rigorosamente al bar
Grazia – a Antonio piaceva quel locale – finimmo alla Màgia e alla fontana di
Buren. Giornata di pieno sole anche allora, con un Montalbano vivido a Sud.
Fu lì che ci mettemmo a parlare di
Buren-bello/Buren-orribile. A quel punto gli scattai delle foto col cellulare:
e furono quelle che mi disse di adoperare per il ricordo che avrei scritto di
lui – cosa che poi ho dovuto fare con un gran peso nell’anima.
La sera del 9 novembre la riprendo come
l’uscita con lui e Umberto Semplici. L’ultima uscita con lui. Anche allora Antonio
mi avvisò della cena all’ultimo momento, ma gli dissi comunque di sì. Umberto,
in un suo scritto di stamattina, mi ricorda che Antonio chiamò quella nostra
cena l’ultima cena (vedi).
Lo avevo cancellato dalla memoria. Chissà perché.
Stamattina, tra poco più di un’ora,
alle 10, alla chiesa della Vergine, ci sono i suoi funerali. La chiesa la
ricordo perfettamente perché ci passammo davanti, io e Antonio, per tornare in
via Fiorentina: l’ho già detto qui.
Una cosa non ho detto, mi è tornata in
mente dopo. Nel momento prima di andarsene, Antonio mi disse: «Certo, guarda chi vive 100 anni. Il suo cuore pompa e
continua a farlo per un secolo… Qual è una pompa creata dalla nostra scienza
che dura così tanto?».
Si fermò un istante e aggiunse: «Ecco perché non può essere che non esista…».
Lui credeva. Io meno. Molto meno. E ne
abbiamo parlato moltissime volte.
Antonio non ha mai smesso di tentare di
convincermi. E ha cercato di farlo anche con quell’ultima frase, è evidente.
Credo quia absurdum, si dice. Io con l’assurdo, però non vado molto d’accordo.
E la morte di Antonio mi sembra così
assurda…
Edoardo Bianchini
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[Mercoledì 28 novembre 2012 - ©
Quarrata/news 2012]
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